M.: “Così tutti invecchiamo, non ce la facciamo più e questo è quanto?”
S.: “Già.”
M.: “Questa è la tua teoria?”
S.: “Magnificamente illustrata, cazzo.”
Qualche giorno fa ho avuto l’opportunità di chiacchierare con F., un caro amico che non vedevo da tempo. Essendo entrambi laureati in sociologia, la conversazione ha preso inevitabilmente una piega “sociologica”. F. mi ha confessato la sua convinzione che il consumismo abbia fagocitato ogni cosa e che persino i tentativi di ribellione, siano essi rappresentati da proposte politiche alternative o stili di vita anticonformisti, non siano altro che varianti della stessa offerta di consumo. In sostanza, non viviamo più in una semplice economia di mercato: siamo diventati una società di mercato, caratterizzata da due elementi chiave: il denaro come unica bussola e la mercificazione totale, incluse le nostre stesse vite, ben visibile nell’ecosistema dei social e delle piattaforme web.
Parlando di questi aspetti, mi sono venuti in mente due film: Fight Club e Trainspotting.
Fight Club rappresenta perfettamente il meccanismo rivelatore della “società di mercato” nella quale siamo immersi come in un liquido amniotico. L’idea di fondo è che siamo tutti un po’ Edward Norton, intrappolati in una mediocrità soffocante, che oggi è persino più precaria e priva di prospettive rispetto al passato. La fuga da questa routine asfissiante ci porta a desiderare di diventare Tyler Durden, l’alter ego bohemien e carismatico interpretato da Brad Pitt. Ma se nel film c’è una critica feroce al capitalismo e alla società dei consumi, nella realtà le nostre rappresentazioni di ribellione si ripetono ogni volta che postiamo la foto di una cena, o condividiamo esperienze di concerti, viaggi e partite di calcio. Isoliamo e celebriamo queste esperienze, rendendole momenti significativi, quasi a illuderci di essere, anche solo per un attimo, il magnetico Tyler Durden. Poi, però, torniamo inesorabilmente a essere gli alienati Edward Norton.
Con Trainspotting, il riferimento è alla teoria cruda e cinica di Sick Boy, il compagno di scorribande e tossicodipendenza di Mark Renton. Secondo Sick Boy, la vita non è altro che una parabola di ascesa e declino inevitabile. Ognuno ha il suo momento di gloria, il suo “prime”, come si usa dire oggi, seguito da un declino progressivo in cui tutto perde di significato e i fallimenti si susseguono. Questa parabola è ineluttabile, al di là degli sforzi personali: una volta superato l’apice, il declino è scritto nel destino.
E qui ci si potrebbe legittimamente chiedere: e se queste teorie non si applicassero solo agli individui, ma anche alla società nel suo complesso? Pensiamo a Ischia, tanto per restare vicini a casa. Tra poco arriverà il Natale e partirà la gara per le luminarie più spettacolari e l’evento più grandioso, una competizione che l’attuale amministrazione di Forio rivendica con orgoglio. Come Tyler Durden, i nostri territori si trasformeranno in versioni glamour di se stessi, dove persino le cicatrici – strade dissestate, costoni franosi, traffico congestionato – sembreranno paradossalmente esaltare l’esotico fascino dell’isola. Ma viene da chiedersi: queste operazioni di facciata servono davvero a destagionalizzare il turismo o non sono piuttosto un tentativo di mascherare il declino di un’isola che il suo “prime” l’ha superato ormai da tempo?
Così è, se vi pare.
Sick Boy e la sua teoria della vita