Avvicinandoci al 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il tema torna al centro del dibattito pubblico. Non solo per via della ricorrenza, ma purtroppo anche per i fatti di cronaca, compresi quelli che riguardano la nostra isola.
Prendiamo, ad esempio, la recente vicenda della foto del ministro dell’Istruzione Valditara bruciata in piazza, gesto di protesta contro alcune sue dichiarazioni discutibili sulla violenza di genere e sul patriarcato. Personalmente, questo episodio mi lascia abbastanza indifferente. So che è sbagliato, so che è a sua volta una forma di violenza, certo è paradossale. Tutto giusto. Ma il conflitto è conflitto, e amen.
Ciò che invece mi colpisce davvero è il manifesto comparso a Pisa qualche giorno fa:
La mia incredulità non riguarda tanto la frase, che in certi contesti potrebbe effettivamente nascondere un atteggiamento coercitivo – del tipo: “Se non obbedisci, ti umilio, ti derido, magari ti picchio” (purtroppo succede, e lo sappiamo bene). Piuttosto, ciò che mi lascia perplesso è la sensazione che il perimetro di ciò che si può dire – specie per noi uomini – stia diventando sempre più stretto.
Intendiamoci: riflettere criticamente sui propri comportamenti è un esercizio utile (a patto di esserne capaci). Ma qui il punto non è la riflessione, bensì la crescente normativizzazione, ossia il proliferare di regole e prescrizioni: “Questo si può dire, questo no.” E queste prescrizioni, spesso, finiscono per tradursi in misure giuridiche. Tuttavia, viene da chiedersi: se questa regolamentazione è in costante aumento, perché i casi di violenza continuano a non diminuire?
Ecco allora che mi pongo due domande.
La prima: è possibile che la violenza sia un tratto costitutivo, biologico, dell’essere uomo? Attenzione, non sto dicendo che non possiamo farci niente – questa precisazione mi pare ovvia, ma meglio ribadire. È una questione indagata anche dalla neuroscienza: se il retroterra ideologico e giuridico che un tempo interpretava culturalmente la violenza di genere (ricordate il delitto d’onore) è quasi scomparso, perché questa violenza continua a manifestarsi?
La seconda: il patriarcato è ancora una categoria valida per interpretare queste realtà? La tesi è sfumata, dal momento che si dice: “La società patriarcale, in senso stretto, non esiste più, ma ne sopravvivono le scorie, i retaggi”. Forse. Ma accanto a questa ipotesi, personalmente ne avanzo un’altra: e se la violenza maschile fosse, almeno in parte, figlia anch’essa della costrittività dell’algoritmo, di quella macchina pervasiva che impone standard di bellezza femminili quasi irraggiungibili?
Anni fa partecipai a un seminario nella facoltà di Sociologia con la compianta Amalia Signorelli. Era quasi trent’anni fa, e la famosa antropologa disse una frase che fece scalpore: “La taglia 42 non è meno afflittiva del burqa.” Una provocazione, certo, ma col senno di poi non era forse così lontana dalla realtà. Disturbi alimentari in crescita, compagni che svalutano le loro compagne perché non aderenti ai canoni veicolati dagli algoritmi (ma già prima, dai media generalisti)… Forse l’allieva di Ernesto De Martino aveva visto giusto.
E allora? Forse abbiamo bisogno di meno prescrittività (moralismi a posteriori) e di più predittività: ossia conoscenza, vera e profonda, di ciò che genera e alimenta la violenza.
Avvicinandoci al 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il tema torna al centro del dibattito pubblico. Non solo per via della ricorrenza, ma purtroppo anche per i fatti di cronaca, compresi quelli che riguardano la nostra isola.
Prendiamo, ad esempio, la recente vicenda della foto del ministro dell’Istruzione Valditara bruciata in piazza, gesto di protesta contro alcune sue dichiarazioni discutibili sulla violenza di genere e sul patriarcato. Personalmente, questo episodio mi lascia abbastanza indifferente. So che è sbagliato, so che è a sua volta una forma di violenza, certo è paradossale. Tutto giusto. Ma il conflitto è conflitto, e amen.
Ciò che invece mi colpisce davvero è il manifesto comparso a Pisa qualche giorno fa:
La mia incredulità non riguarda tanto la frase, che in certi contesti potrebbe effettivamente nascondere un atteggiamento coercitivo – del tipo: “Se non obbedisci, ti umilio, ti derido, magari ti picchio” (purtroppo succede, e lo sappiamo bene). Piuttosto, ciò che mi lascia perplesso è la sensazione che il perimetro di ciò che si può dire – specie per noi uomini – stia diventando sempre più stretto.
Intendiamoci: riflettere criticamente sui propri comportamenti è un esercizio utile (a patto di esserne capaci). Ma qui il punto non è la riflessione, bensì la crescente normativizzazione, ossia il proliferare di regole e prescrizioni: “Questo si può dire, questo no.” E queste prescrizioni, spesso, finiscono per tradursi in misure giuridiche. Tuttavia, viene da chiedersi: se questa regolamentazione è in costante aumento, perché i casi di violenza continuano a non diminuire?
Ecco allora che mi pongo due domande.
La prima: è possibile che la violenza sia un tratto costitutivo, biologico, dell’essere uomo? Attenzione, non sto dicendo che non possiamo farci niente – questa precisazione mi pare ovvia, ma meglio ribadire. È una questione indagata anche dalla neuroscienza: se il retroterra ideologico e giuridico che un tempo interpretava culturalmente la violenza di genere (ricordate il delitto d’onore) è quasi scomparso, perché questa violenza continua a manifestarsi?
La seconda: il patriarcato è ancora una categoria valida per interpretare queste realtà? La tesi è sfumata, dal momento che si dice: “La società patriarcale, in senso stretto, non esiste più, ma ne sopravvivono le scorie, i retaggi”. Forse. Ma accanto a questa ipotesi, personalmente ne avanzo un’altra: e se la violenza maschile fosse, almeno in parte, figlia anch’essa della costrittività dell’algoritmo, di quella macchina pervasiva che impone standard di bellezza femminili quasi irraggiungibili?
Anni fa partecipai a un seminario nella facoltà di Sociologia con la compianta Amalia Signorelli. Era quasi trent’anni fa, e la famosa antropologa disse una frase che fece scalpore: “La taglia 42 non è meno afflittiva del burqa.” Una provocazione, certo, ma col senno di poi non era forse così lontana dalla realtà. Disturbi alimentari in crescita, compagni che svalutano le loro compagne perché non aderenti ai canoni veicolati dagli algoritmi (ma già prima, dai media generalisti)… Forse l’allieva di Ernesto De Martino aveva visto giusto.
E allora? Forse abbiamo bisogno di meno prescrittività (moralismi a posteriori) e di più predittività: ossia conoscenza, vera e profonda, di ciò che genera e alimenta la violenza.