Qualche giorno fa ho letto un editoriale sull’Avvenire firmato da Elena Molinari. La corrispondente dagli Stati Uniti del quotidiano cattolico ha saputo andare a fondo, come piace a me, pur nei limiti di spazio di un articolo di giornale.
Molinari mette in luce uno iato significativo tra l’immagine fortemente polarizzata degli Stati Uniti attuali e la più complessa realtà sociale del paese. Certo, oggi sembra che i valori dei democratici e dei repubblicani siano inconciliabili, e per una parte dell’elettorato più politicizzato è davvero così. Tuttavia, dietro questa facciata divisiva, circa la metà degli elettori statunitensi fluttua tra gli schieramenti per motivi vari e personali: un tema specifico, la simpatia o antipatia verso un candidato, un interesse particolare. E poi ci sono le innumerevoli sfumature che caratterizzano ogni elettore, come chi è progressista in economia ma conservatore sul piano morale (o viceversa), o chi è contro l’aborto ma si oppone anche a politiche migratorie restrittive.
Insomma, la polarizzazione c’è, ma non è detto che sia destinata a crescere senza fine. Basta un cambiamento di scenario, e l’American way of life potrebbe ritrovare la forza di unire ciò che ora appare diviso.
Questa riflessione mi ha fatto pensare alla nostra realtà, in linea con l’approccio “glocal” che è il filo conduttore di questa rubrica. Mi chiedo, dunque: conosciamo davvero il nostro territorio? Non mi riferisco tanto alla conoscenza fisica della nostra isola, quanto piuttosto alla sua dimensione culturale.
Prendiamo ad esempio novembre, uno dei mesi, insieme a febbraio, in cui si avverte più intensamente l’alienazione dell’inverno. In questi giorni, a Forio, può risultare difficile perfino trovare un bar aperto per un caffè. Ma è necessario fermarsi a questa percezione superficiale e lasciarsi sopraffare dal senso di isolamento che la vita insulare può portare con sé? O si può andare oltre, provando a scavare più a fondo?
La risposta, a mio avviso, sta nello spostare l’attenzione dal “territorio” alle persone che lo abitano. Nell’ultima puntata di Deep Island, trasmissione radiofonica che conduco assieme ad Antonello De Rosa, ho avuto un esempio illuminante di quanto possa essere potente questo cambio di prospettiva. In studio con noi c’erano i ragazzi di Sintesi, un’agenzia creativa locale che si distingue per la capacità di spaziare tra grafica, marketing e pubblicità. Ma soprattutto, abbiamo avuto l’onore di ospitare il maestro Tony Di Spigna, grafico, designer, tipografo, docente e artista.
Per comprendere appieno ciò di cui parlo, vi invito ad ascoltare la puntata del 6 novembre 2024. Mi limito a riportare una frase significativa del maestro Di Spigna, che – ricordiamo – vive e lavora a New York: a un certo punto ha esclamato, con convinzione, “America sta ‘ccà”.
Anche a novembre, evidentemente. Forse basta saperla vedere.
Qualche giorno fa ho letto un editoriale sull’Avvenire firmato da Elena Molinari. La corrispondente dagli Stati Uniti del quotidiano cattolico ha saputo andare a fondo, come piace a me, pur nei limiti di spazio di un articolo di giornale.
Molinari mette in luce uno iato significativo tra l’immagine fortemente polarizzata degli Stati Uniti attuali e la più complessa realtà sociale del paese. Certo, oggi sembra che i valori dei democratici e dei repubblicani siano inconciliabili, e per una parte dell’elettorato più politicizzato è davvero così. Tuttavia, dietro questa facciata divisiva, circa la metà degli elettori statunitensi fluttua tra gli schieramenti per motivi vari e personali: un tema specifico, la simpatia o antipatia verso un candidato, un interesse particolare. E poi ci sono le innumerevoli sfumature che caratterizzano ogni elettore, come chi è progressista in economia ma conservatore sul piano morale (o viceversa), o chi è contro l’aborto ma si oppone anche a politiche migratorie restrittive.
Insomma, la polarizzazione c’è, ma non è detto che sia destinata a crescere senza fine. Basta un cambiamento di scenario, e l’American way of life potrebbe ritrovare la forza di unire ciò che ora appare diviso.
Questa riflessione mi ha fatto pensare alla nostra realtà, in linea con l’approccio “glocal” che è il filo conduttore di questa rubrica. Mi chiedo, dunque: conosciamo davvero il nostro territorio? Non mi riferisco tanto alla conoscenza fisica della nostra isola, quanto piuttosto alla sua dimensione culturale.
Prendiamo ad esempio novembre, uno dei mesi, insieme a febbraio, in cui si avverte più intensamente l’alienazione dell’inverno. In questi giorni, a Forio, può risultare difficile perfino trovare un bar aperto per un caffè. Ma è necessario fermarsi a questa percezione superficiale e lasciarsi sopraffare dal senso di isolamento che la vita insulare può portare con sé? O si può andare oltre, provando a scavare più a fondo?
La risposta, a mio avviso, sta nello spostare l’attenzione dal “territorio” alle persone che lo abitano. Nell’ultima puntata di Deep Island, trasmissione radiofonica che conduco assieme ad Antonello De Rosa, ho avuto un esempio illuminante di quanto possa essere potente questo cambio di prospettiva. In studio con noi c’erano i ragazzi di Sintesi, un’agenzia creativa locale che si distingue per la capacità di spaziare tra grafica, marketing e pubblicità. Ma soprattutto, abbiamo avuto l’onore di ospitare il maestro Tony Di Spigna, grafico, designer, tipografo, docente e artista.
Per comprendere appieno ciò di cui parlo, vi invito ad ascoltare la puntata del 6 novembre 2024. Mi limito a riportare una frase significativa del maestro Di Spigna, che – ricordiamo – vive e lavora a New York: a un certo punto ha esclamato, con convinzione, “America sta ‘ccà”.
Anche a novembre, evidentemente. Forse basta saperla vedere.